L’Acetaia di mio padre

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Era il lontano 1979, quando, in previsione di sposarmi, decisi di ristrutturare il vecchio solaio situato all’ultimo piano della mia abitazione: un luogo dove un tempo ci mettevano a salare i prosciutti e i salami e dove, in una stanza riservata e inaccessibile, l’unica ermeticamente chiusa da una porta, mio padre custodiva gelosamente l’aceto balsamico.

botti-di-aceto.

Il solaio era:

- ben arieggiato (due finestre per ambiente, anche se non molto grandi),
- luminoso,
- molto caldo, perché niente lo isolava dal tetto,
- appositamente non tinteggiato.

Se poi si tiene conto che il pavimento era in cemento, si può capire che ai miei occhi quello apparisse come un appartamento ancora da finire di costruire.

Cauta e guardinga, decisi di sgombrare, durante le vacanze estive, quegli ambienti pieni di polvere e di ricordi, anche se preziosi solo al mio cuore: specchi, candelieri, angoliere e comò antichi, che ora, fatti ripulire, troneggiano spavaldi fra quelle mura.
casetta. L’ira di mio padre, alle grandi manovre, non tardò a manifestarsi, ma dopo alcune battaglie, arrivammo a un compromesso: l’appartamento l’avremmo potuto ristrutturare, ma…… dovevo lasciare un ambiente a sud-ovest completamente a sua disposizione per l’aceto balsamico.

Unica concessione: potevamo far sistemare il pavimento e tinteggiare le pareti a calce. Niente di più! Quante storie per sei barilotti d’aceto nero, sporchi ma profumatissimi! Quella stanza, ad essi adibita, ci avrebbe fatto molto comodo, ma pazienza….

Ogni anno, bussando alla mia porta, mio padre appariva con damigiane di mosto cotto, secchi di diverse dimensioni, tubi di gomma, un particolare strumento per prelevare l’aceto dai barili, che lui chiamava sasso e poche bottiglie da riempire. Quando se ne andava (ricordo che toglieva perfino la porta dai cardini per poter lavorare con più spazio), era tanto lo sporco che vedevo, che mi faceva dimenticare la causa di quell’ aroma, così dolce che i nostri ospiti, varcando la soglia di casa, esclamavano: ‘Ma che buon profumo! Che cosa nascondete in questo appartamento da bomboniera?’’ Ho sentito spesso questa espressione, forse perché il mio appartamento è inusualmente basso o forse perché è arredato da tante cose antiche, anche se non preziose, arricchite da fiocchi, nastri e pizzi della nonna, o forse anche proprio grazie a quel dolcissimo profumo che filtra da quella porta sempre chiusa in fondo al corridoio. Il primo impatto, arrivando su da noi, era giudicato gradevolissimo.

Capisco ora mio padre quando, una volta all’anno, in ottobre, mi invitava ad accompagnarlo in furgone da un suo amico fidato, un contadino di CASTELVETRO, che gli procurava alcuni quintali di uva bianca dolcissima (imparai più tardi che si trattava di TREBBIANO), che lui mostava di persona nella nostra cantina la sera stessa. In quell’occasione tutti eravamo all’opera: anche i generi, sbuffaBotte anticando, davano una mano per sollevare quelle casse di legno pesantissime. Mia madre entrava in scena il giorno dopo quando doveva fare bollire piano, pianissimo il MOSTO, fino a ridurlo quasi della metà, dentro a una caldaia di rame sopra un fuoco alimentato a legna a cielo aperto. Era veramente un rito, nessuno poteva distrarla dal doppio impegno di fare fuoco lentamente e schiumare quel liquido bollente. Quel giorno toccava a noi figlie stare ai fornelli, perché lei ‘’non poteva assolutamente abbandonare al fugoun !
Talvolta mio padre cercava di coinvolgermi in tutte quelle manovre, ma capivo che l’idea di tramandarmi tutti quei segreti non lo convinceva del tutto. Vedevo bene però quanto amasse l’ACETO BALSAMICO, sia in tavola (dalla quale era assolutamente bandito l’aceto di vino), sia, soprattutto, nell’arte di produrlo.

Ricordo la sua felicità il giorno in cui un amico gli regalò un barile quasi centenario, ma anche la sua preoccupazione nello scoprire una perdita in una botticella. Corse subito ai ripari portandola da un bottaio, giacché riteneva che fosse buona cosa farla ricoprire. Tutto questo continuò per quindici anni, finché un’ improvvisa malattia lo costrinse lungamente a letto e non gli permise più di occuparsi del suo aceto. Tutti pensavamo a lui e qualche volta ai suoi barili abbandonati alla loro sorte. Nessuno osava toccarli: ci illudevamo che ci avrebbe pensato lui, una volta che fosse guarito.

Ora ho deciso di prendere in mano io la conduzione di questa piccola acetaia. A novembre ho chiesto consulenza a un vecchio amico di mio padre, ma i suoi consigli non mi hanno completamente soddisfatto. Allora ho pensato di affidarmi a dei maestri competenti. Ho pronto , in sei piccoli vasetti, un campione per ogni barile. Mi angoscia però l’idea di doverli consegnare in Consorteria e sottoporli al giudizio di esperti, perché temo di sentirmi dire: ‘’qui non c’è niente di buono!’’


Maria Rosa Caselli
Castelnuovo Rangone - MO
9 aprile 1998

 

Nota del curatore: le immagini del racconto si riferiscono alla acetaia cosi’ come e’ oggi. Tuttora Maria Rosa cura con amore le antiche botti del padre ‘’