Il Buono bio - la Pac che vogliamo

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Che cos’è la PAC


La Politica Agricola Comune (PAC) è la più importante politica europea, sia in termini di risorse impegnate - oltre il 40% del bilancio comunitario - sia in termini di impatto, andando ad influenzare direttamente il paesaggio e lo spazio rurale dei 27 Paesi membri. La PAC, infatti, è la politica decisa a livello europeo per regolare in tutto il Vecchio Continente l’agricoltura, il settore primario dell’economia che, solo in Italia, impiega oltre un milione di lavoratori ed è il secondo comparto dell’economia, in termini di occupazione. Eppure, nonostante i cittadini europei sostengano il costo della PAC con le loro tasse e nonostante la PAC influenzi la qualità del cibo, dell’ambiente, del paesaggio, e in un certo senso della salute, dei cittadini quest’ultimi non sono mai stati coinvolti in nessun processo decisionale.
Dalla sua costituzione nel 1956, l’Europa ha posto al centro della sua attenzione la definizione di una politica comune per tutti i Paesi membri, allo scopo di raggiungere l’autosufficienza alimentare.
Di fatto questa politica incide in maniere decisiva sulle aree rurali europee, ma anche sul paesaggio, sulla vita dei nostri contadini, e, non meno importante, determina in maniera preponderante la qualità del cibo che mangiamo. È l’unica politica per la quale c’è stato un effettivo passaggio di sovranità dagli Stati membri all’Unione e per questo viene decisa esclusivamente a livello europeo.

 

La sua origine ed il suo sviluppo negli anni

La Politica Agricola Comunitaria è nata da un patto sociale di grande valore di cui oggi, purtroppo, non abbiamo più memoria, né traccia: si trattava di costruire una Comunità europea (Ce) di popoli, di interessi, di culture, che superasse conflitti secolari e di dare da mangiare agli europei, da poco usciti dalla guerra. Un’Europa con sistemi agricoli, talvolta arretrati, non tanto e non solo dal punto di vista tecnologico, ma nei rapporti di filiera, nelle condizioni di lavoro e nelle condizioni di vita di vaste realtà del mondo rurale. Erano gli anni in cui l’intervento dello Stato nell’economia era diffuso, e anche la PAC prese forma da questa filosofia, come del resto
l’altra grande politica agricola già in vigore, il Farm Bills statunitense.
Alcuni esempi di queste misure sono stati i prezzi minimi determinati politicamente per molti prodotti agricoli, le barriere alle importazioni e i sussidi alle esportazioni extra comunitarie.
Nei campi decollò un modello di sviluppo centrato sull’industrializzazione dell’agricoltura per aumentare la produttività, basato sull’uso del petrolio, dei fertilizzanti chimici e dei pesticidi. Più si produceva, più alte erano le sovvenzioni. Mentre si andò consolidando una gestione delle misure della PAC eccessivamente burocratizzata, tanto che la PAC diventò il dominio esclusivo di esperti di pratiche del settore.
Agli inizi degli anni Ottanta i risultati dell’intensificazione dell’agricoltura comunitaria portarono all’accumulo di eccedenze agricole da esportare sui mercati internazionali grazie ai sussidi alle esportazioni.
Un modello produttivo fortemente inquinante dell’economia sia europea che globale ed un altissimo costo per il contribuente.
Dal 1990 partì quello che è stato definito il processo di “riforma continua” della PAC all’interno della nuova cornice internazionale dettata dagli accordi commerciali definiti nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC). Si passò dal sostegno alla produzione, al sostegno alle superfici e al concetto di liberalizzazione commerciale dei mercati agricoli e dello sviluppo exported oriented. È venuta meno la funzione primaria dell’agricoltura italiana ed europea di produrre cibo, e si è giunti con anni di politica agricola liberista alla crisi globale caratterizzata dai picchi dei prezzi agricoli del 2007/08, che ha preceduto quella finanziaria ed economica, che ha visto aumentare nel mondo coloro che soffrono cronicamente la fame: oltre il miliardo di persone.
Attualmente la PAC ha difficoltà a rispondere agli effetti indotti dalla volatilità (instabilità) dei prezzi delle commodities agricole che rende precarie le condizioni stesse dell’attività produttiva agricola.
Volatilità in cui gioca un ruolo importante una finanza internazionale che, grazie alle deregolamentazione dei primi anni Duemila, può liberamente investire e speculare anche sui prezzi delle materie prime agricole, finendo per manipolarne l’andamento economico del settore.


Chi decide la PAC?

Nel 2010 si è aperto un dibattito pubblico sulla nuova PAC, quella che entrerà in vigore dal primo gennaio 2014 al 2020. La Commissione Europea ha comunicato la sua proposta di regolamento, il Consiglio Europeo (i Ministri dell’Agricoltura dei 27) e il Parlamento Europeo stanno attualmente discutendo la proposta, per arrivare ad una negoziazione con la Commissione per un testo definitivo. La co-decisione Commissione-Parlamento Europeo è la grande novità che arriva dal Trattato di Lisbona.
Il nuovo Trattato di Lisbona, infatti, prevede che l’agricoltura sia un settore in cui si legifera con l’accordo sia del Parlamento Europeo, sia del Consiglio Europeo (il collegio di tutti i governi degli Stati membri), sia della Commissione Europea (il governo dell’Unione Europea eletto dal Parlamento Europeo).
Questo significa che tutti noi cittadini, influenzando i nostri Parlamentari Europei, abbiamo voce in capitolo sulle decisioni che si prenderanno su ciò che mangiamo, sul nostro paesaggio, sul tipo di agricoltura e di sistema di produzione che vogliamo e sulla vitalità delle aree rurali.
La PAC non è quindi una politica di settore che interessa un limitato numero di gruppi di interesse, è una politica che determina elementi fondamentali della nostra vita: il rapporto con il territorio, le persone che lo coltivano e il cibo che mangiamo.
Tutti i cittadini europei dovrebbero essere protagonisti di questo straordinario momento decisionale che non deve rimanere chiuso nelle stanze degli addetti ai lavori, ma deve diventare un grande dibattito che matura all’interno della nostra società. Per questo motivo è necessario coinvolgere nella discussione sulla futura politica agricola europea i grandi comunicatori, i grandi media, non specialistici ad ampia diffusione.
Vogliamo, infatti, una PAC che sia vissuta da tutti i cittadini europei come un fattore determinante della propria qualità della vita.


I numeri della PAC

La Politica Agricola Comune vale 55 miliardi di euro all’anno, di cui oltre 6 destinati all’Italia. Risorse di cui dovrebbero beneficiare in modo equo oltre un milione di aziende agricole italiane, invece l’80% di esse vanno al 20% dei produttori. In Italia il più grande beneficiario dei pagamenti PAC è un’industria di produzione dello zucchero che riceve oltre 24 milioni di euro di contributi all’anno. In Austria, il signor Porsche è il primo beneficiario!
Come si evince dalla tabella sottostante, il 28% dei finanziamenti della PAC finisco allo 0,4% delle aziende agricole italiane, un ristretto numero di privilegiati che ricevono ciascuno mediamente 314 mila euro l’anno per un totale complessivo di oltre un miliardo e mezzo. Non meno fortunate sono anche quello 0,7% di realtà agricole italiane che si mettono in tasca il 10,5% dei sussidi europei all’agricoltura portandosi a casa una media di 62 mila euro ciascuno l’anno, o l’1,6% delle aziende agricole che si spartiscono il 12,3% degli aiuti, incassando quasi 32 mila euro l’anno ciascuno.
Al contrario dei pochi privilegiati, la grande maggioranza degli agricoltori riceve aiuti molto contenuti.
Basti pensare che il 58,3% delle nostre aziende riceve mediamente 394 euro l’anno di sussidi e che un altro abbondante 26,8% riceve poco più di 2 mila euro l’anno (prof. Franco Sotte, 2011).
Nonostante la Politica Agricola Comune sia stata protagonista negli ultimi 25 anni di diversi processi di riforma, la distribuzione delle risorse ha sempre mantenuto questo andamento sperequativo.
Nell’ultima riforma, inoltre, la definizione dei premi ha addirittura penalizzato chi, come i produttori biologici, ha perseguito la sostenibilità delle produzioni


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La politica agricola promossa dall’Europa ha favorito sino ad ora il modello agro-industriale, che determina spesso una perdita di fertilità dei suoli e porta alla concentrazione fondiaria.
Per rendersi conto delle dimensioni del fenomeno basti considerare i dati delle ultime rilevazioni ISTAT (2007), secondo le quali aziende agricole italiane con taglia superiore ai 50 ettari (HA) coltivano circa il 40% della superficie agricola utilizzata (SAU) ma sono solo il 2,39% del totale.
Le aziende con taglia inferiore ai 5 HA coltivano invece il 15,8% della SAU ma sono il 73.4% del totale. Quelle con taglia inferiore ai 2 HA coltivano solo il 6% della terra e rappresentano la metà delle aziende italiane.
La spinta alla riduzione delle aziende agricole e alla concentrazione fondiaria in un numero sempre minore di realtà dalle dimensioni crescenti, sono stati fenomeni incoraggiati dalla Politica Agricola Comune. Questo fenomeno influisce non solo sul cambiamento del nostro paesaggio agrario, ma sta mutando anche la nostra abitudine agroalimentare.
Lo scenario è simile anche nel resto dell’Unione Europea: nel 1995 nell’UE a 15 si contavano 7.370.000 aziende agricole, scese poi a 5.662.420 nel 2007. Stessa cosa dicasi per l’UE a 27: si contavano 15.021.030 aziende nel 2003, scese a 13.700.400 nel 2007 (Antonio Onorati, 2011).
Attraverso i sussidi all'export, la PAC ha inciso anche sull’impoverimento dei contadini del Sud del mondo, che devono competere sul loro mercato con i nostri prodotti che sono venduti sottocosto grazie ai sussidi.
Questa evoluzione dell’agricoltura europea si è dimostrata funzionale ad un modello di distribuzione basato sui grandi Ipermercati che non hanno alcun interesse ad avere produzioni diversificate e molti contadini, ma hanno bisogno di pochi prodotti standard al prezzo più basso possibile che possono essere forniti da grandi aziende pesantemente sovvenzionate dai fondi pubblici della PAC.
Con la riforma del 1992, la PAC ha istituito lo “Sviluppo Rurale” ovvero un programma contenente una serie di misure, dedicate, ad esempio: al miglioramento dell’impatto ambientale delle coltivazioni, al sostegno agli investimenti produttivi, e all’insediamento dei giovani in agricoltura. Buone misure, ma che non hanno bilanciato la politica generale della PAC, poiché hanno ricevuto in dote solo il 15% delle risorse totali. Attualmente, il cosiddetto sviluppo rurale assorbe il 20% del bilancio della PAC. Ancora troppo poco.

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La PAC che vogliamo

In Europa è sicuramente necessaria una buona Politica Agricola, adeguatamente finanziata, che permetta ai contadini europei di continuare a produrre, ma deve essere radicalmente diversa da quella attuale.
In agricoltura si deve continuare ad investire. Oggi la spesa pubblica italiana in agricoltura non supera il 2% del totale ed è uno dei settori economici meno sostenuti. Il budget della PAC deve rimanere inalterato, ma bisogna pretendere che sia speso bene.
Vogliamo una Politica Agricola Comune che sia giusta ed equa, che non premi la rendita fondiaria, ma che permette ai produttori e anche alle piccole aziende, di continuare a dare quell’insostituibile contributo in termini di produzione di cibo, di presidio territoriale, di difesa della biodiversità che hanno garantito fino ad oggi. Vogliamo una produzione agricola che non dipenda dal petrolio, che premi le aziende piccole e grandi che adottano sistemi produttivi sostenibili ed estensivi, e che garantisca l’accesso alla terra anche ai giovani.
Per questo, contro i premi alla rendita fondiaria, chiediamo tetti massimi di aiuto alla singola azienda e proporzionali al numero delle persone impiegate. Sostegni che tengano in considerazione anche le tipologie di colture e il metodo di produzione adottato. In particolare vanno sostenuti i produttori che fanno bene all’ambiente e producono cibo sano, come i produttori biologici, i piccoli produttori e i giovani che vogliono avviare un’attività agricola.
Per sostenere i piccoli produttori, è necessario implementare misure che garantiscano una giusta retribuzione per i contadini e un prezzo altrettanto giusto per i consumatori; delle misure dalla burocrazia semplificata, che facilitino la trasformazione dei prodotti in azienda, e che favoriscano tutte le forme di vendita diretta e l’acquisto nelle mense pubbliche di prodotti locali e biologici.
Dalla PAC post 2013, inoltre, ci aspettiamo che investa in ricerca e innovazione per diminuire l’impatto dell’attività produttiva sull’ambiente e che dia la possibilità di ripensare le aree rurali a livello dei territori, favorendo la creazione di biodstretti dove agricoltura ed altre attività economiche possano interagire per far rivivere le aree rurali comprendendo anche l’agricoltura sociale.
Altrettanto importanti devono essere i provvedimenti capaci di arginare le speculazioni finanziarie sul cibo e di promuovere i mercati locali e mettere fine alle pratiche di dumping che danneggiano i contadini del Sud del mondo.

Vogliamo una PAC che rispetti
la sovranità alimentare
ovvero il diritto di tutti noi
di scegliere quale politica agricola vogliamo
e come vogliamo alimentarci.


Bibliografia
Antonio Onorati, Nessuna vende la terra su cui cammina il suo popolo. A parte gli stolti, in “BioAgriCultura”, n.126, marzo/aprile 2011
Franco Sotte, Evidence-based agricultural and rural policy making: methodological and empirical challenges of policy evaluation, 2011


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