Ringraziamo il dottor Montanari e la dottoressa Gatti per l'articolo che segue per chi avesse voglia di approfondire ulteriormente la materia, segnaliamo il sitoNanodiagnostic.

 

nanopatologie

CHE COSA SONO LE NANOPATOLOGIE?


Stefano Montanari – Direttore Scientifico del laboratorio Nanodiagnostics
Via E. Fermi, 1/L – 41057 San Vito (Modena)
www.nanodiagnostics.it

 

Pur coinvolgendo non pochi campi della medicina, l’argomento è senza dubbio nuovo al di fuori di ambiti scientifici molto particolari e ancora riservati agli addetti ai lavori.olendo offrire una definizione succinta, le nanopatologie sono le malattie provocate da micro- e, soprattutto, nanoparticelle 1 inorganiche che in qualche modo riescono a penetrare nell’organismo, umano o animale che sia, e non ha alcuna importanza come queste entità piccolissime riescono ad entrare o come sono prodotte.
È un dato di fatto che i meccanismi seguiti da una particella una volta che questa sia riuscita a penetrare nell’organismo sono gli stessi, indipendentemente dalla sua origine. All’inizio degli anni Novanta, il Laboratorio di Biomateriali dell’Università di Modena fondato e diretto dalla dottoressa Antonietta Gatti si trovò ad investigare sul perché un filtro cavale si fosse rotto all’interno della vena cava di un paziente 2. Il perché questo si fosse rotto fu un problema di facile soluzione, ma la nostra analisi, eseguita con sistemi fisici, rivelò qualcosa di molto strano, vale a dire la presenza su quell’oggetto di elementi come, ad esempio, il titanio, che non fanno parte dell’organismo di alcun animale superiore né entrano nella composizione del dispositivo. Un paio d’anni più tardi, ci si presentò un caso del tutto analogo e, ancora una volta, trovammo che elementi estranei sia ai tessuti umani sia alla lega metallica del filtro erano presenti.
Poi, alla fine del 1998, la dottoressa Gatti ebbe l’occasione di esaminare i reperti bioptici epatici e renali di un paziente che da oltre otto anni soffriva di febbre intermittente unita a gravi compromissioni al fegato e, soprattutto, ai reni, senza che nessuno fosse in grado di dire da dove questi sintomi originassero. Con grande sorpresa, in seguito alle analisi eseguite fu evidente che quei tessuti contenevano micro- e nanoparticelle di materiale ceramico, un materiale identico a quello che costituiva la protesi dentaria usurata che il paziente portava. Ciò che era avvenuto era abbastanza semplice: i detriti che la protesi produceva a causa di una cattiva occlusione e, dunque, di una scorretta masticazione, e di un tentativo maldestro di aggiustamento erano stati inghiottiti per otto anni.
Poi questi detriti erano in qualche modo finiti nel fegato e nei reni dove erano restati, provocando una granulomatosi che si era aggravata tanto da condurre il paziente sull’orlo di un trattamento emodialitico cronico che pareva ormai inevitabile. Rimossa la protesi e trattato il soggetto con un’opportuna terapia cortisonica, i sintomi si stabilizzarono, in parte anche regredendo, e non ci fu bisogno di ricorrere all’emodialisi. Cominciammo allora a cercare negli archivi delle Università di Modena e di Magonza (Germania) e del Royal Free Hospital di Londra per avere reperti autoptici e bioptici di pazienti che soffrissero o avessero sofferto di malattie criptogeniche, in particolare quelle delle quali fosse possibile ipotizzare un’origine o, comunque, una componente, infiammatoria.
Il materiale su cui cominciammo a lavorare riguardava principalmente varie forme tumorali e granulomatosi di origine non virale e non batterica. In tutti i casi esaminati i campioni contenevano micro- e nanoparticolato inorganico. Sulla base di quanto stavamo trovando, la dottoressa Gatti chiese ed ottenne un supporto finanziario dalla Comunità Europea per allestire una ricerca più sistematica, e il progetto (QLRT-2002-147), che coinvolse anche le Università di Magonza e di Cambridge, la FEI (gruppo Philips) e la Biomatech (azienda privata di ricerca francese), fu battezzato “Nanopathology”, indicando con quel neologismo lo studio delle patologie indotte da micro- e nanoparticelle. Si acquistò, allora, un microscopio elettronico a scansione ambientale (ESEM) accessoriato con uno spettroscopio a raggi X a dispersione d’energia (EDS) e si approntò una metodica ad hoc, che ancora non ha uguali al mondo, appropriata per i nostri scopi. Il vantaggio principale di quel tipo di microscopio è la possibilità che questo offre di osservare campioni biologici vitali in condizioni ambientali, vale a dire non sotto vuoto (il che ne farebbe evaporare tutto il contenuto d’acqua, uccidendoli) e senza ricopertura di metalli o di carbone (il che introdurrebbe degl’inquinanti). L’EDS, invece, permette di eseguire un’analisi elementare assolutamente precisa e puntuale del campione. Iniziate le ricerche, fu subito evidente che il particolato micro- e nanometrico è in grado di entrare nell’organismo e, almeno in parte, non viene affatto eliminato come, invece, era sempre stato dato per scontato pur senza alcuna base scientifica sperimentale, dato che nessuna ricerca in proposito era mai stata eseguita. Fu altrettanto evidente come la via preferenziale d’ingresso di quel materiale sia l’inalazione. A causa delle loro ridottissime dimensioni, quelle particelle, non importa come prodotte, restano sospese nell’aria per tempi lunghissimi.
Da qui, vengono inspirate e finiscono negli alveoli polmonari dove, se sono abbastanza grossolane (si parla, comunque di qualche millesimo di millimetro), sono fagocitate dai macrofagi. Una volta che questi corpi estranei sono stati divorati, i macrofagi non sono però capaci di degradarli e, dunque, di distruggerli, perché quei corpi estranei non sono biodegradabili. La conseguenza è che, morto il macrofago, la particella rimane nell’organismo, a meno di quella frazione che i macrofagi sono riusciti a portare a livello delle vie respiratorie superiori per venire poi eliminate tramite l’espettorazione. Se il particolato è di dimensioni nanometriche, e si parla da qualche decimillesimo di millimetro in giù, questo passa direttamente, entro un minuto, dall’alveolo polmonare alla circolazione sanguigna. Dal sangue agli organi il passo è breve, soprattutto se si pensa che le nanoparticelle entrano anche nei globuli rossi, un ottimo cavallo di Troia per superare ogni barriera.
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Fig. 1 - Nanoparticelle di ferro all’interno di un globulo rosso

Così, prima o poi, queste particelle sono sequestrate da qualche organo: fegato, rene, gangli linfatici, cervello e, in pratica, ogni tessuto dell’organismo. Ad aggravare la situazione, sta il fatto che il particolato che noi vediamo non è solo non biodegradabile, ma è anche non biocompatibile, il che significa che è sicuramente, per definizione stessa, patogenico, cioè capace d’innescare una malattia. Come per un qualsiasi corpo estraneo, uno stato infiammatorio è la maniera con cui l’organismo reagisce alla presenza indesiderabile di quei minuscolissimi granelli di polvere, e questa reazione diventa visibile quando la concentrazione dei detriti è abbastanza elevata. Ma quando i granelli sono nanometrici, ecco che questi sono capaci di penetrare nelle cellule, e lo fanno profondamente, fino all’interno del nucleo, senza che di loro la cellula si accorga.

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Fig. 2 – Nanoparticelle di ferro all’interno del nucleo di un epatocita

Nel primo caso, spesso l’infiammazione si cronicizza, e questa è una condizione favorevole all’istaurarsi di una patologia tumorale. Nel secondo, invece, non abbiamo una casistica sufficiente, ma, a lume di buon senso, si può pensare che una presenza estranea in un punto così delicato di una cellula possa interferire sia fisicamente sia chimicamente con le sue strutture e, più segnatamente, con il DNA. Da aggiungere, poi, che in diverse circostanze abbiamo trovato particolato nello sperma da dove potrebbe entrare nell’ovocita, ragionevolmente provocando reazioni avverse. È un dato di fatto che i militari esposti ai fumi delle esplosioni, fumi che di particelle abbondano, generano una prole malformata con una frequenza niente affatto trascurabile. Si aggiunga pure il fatto che le pecore al pascolo nei pressi di alcune basi militari dove si fanno esplodere bombe partoriscono frequentemente agnelli le cui malformazioni sono tanto gravi da essere incompatibili con la vita. Un ottimo laboratorio che ci si è offerto per questa parte dei nostri studi è stata, ed è tuttora, quello dei teatri bellici. Il nostro gruppo è impegnato nelle ricerche sulle sindromi cosiddette del Golfo e dei Balcani che affliggono militari e civili allo stesso modo. Una delle nostre scoperte è quella secondo cui i soggetti impegnati in quelle zone si ammalano non tanto per la radioattività dell’uranio impoverito contenuto in certi proiettili ed in certe bombe (al più, la radioattività potrebbe essere una concausa), o per la tossicità dell’uranio, bensì per l’inalazione (e l’ingestione) delle enormi quantità di polveri sottili e sottilissime che ogni esplosione ad alta temperatura sviluppa (e l’uranio è responsabile della creazione di temperature che superano i 3.000 °C), facendo volatilizzare bersaglio e proiettile insieme. Questo materiale si ricondensa velocemente in atmosfera sotto forma di micro- e nanoparticolato che resta poi in sospensione per tempi anche molto lunghi, e si deposita lentamente al suolo, ricadendo sui prodotti commestibili della terra. Basta, poi, un refolo di vento per risollevare la polvere di nuovo e ricominciare il ciclo.
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Fig. 3 – Micro- e nanoparticelle di piombo nello sperma

Dopo l’inalazione, la via d’assunzione più frequente per i micro- e nanodetriti è l’ingestione. Dovunque, come accade nei territori colpiti dalla guerra, le particelle che fluttuano in aria, comunque prodotte, prima o poi cadano a terra, depositandosi su frutta e verdura che sono alimento per l’uomo, e sull’erba che è cibo per gli animali. Anche l’apparato digerente lascia transitare con una certa libertà il particolato che, come avviene per quello inspirato, entra nel sangue e nei vasi linfatici, seguendo poi la stessa sorte dell’altro. In questo caso, particelle relativamente grossolane restano “incastrate” nel tessuto della parete gastrica o intestinale. Ma ulteriori, seppur meno frequenti, vie d’ingresso nell’organismo esistono.
Ad esempio, il fumo di tabacco (sigaretta, pipa o sigaro non fanno alcuna differenza e provocano identico danno) contiene particolato che penetra sia nei polmoni, dove in parte resta e da dove in parte migra, sia nella mucosa della bocca dove un po’ passa nel sangue e molto si accumula. Si è ipotizzato anche il passaggio di particelle attraverso la pelle, e questo in relazione all’uso che si fa di particolato in certe creme cosmetiche, ma, a quanto risulta a tutt’oggi da uno studio su base europea, pare che questa possibilità sia da escludere, almeno in presenza di una pelle integra. A questo punto, la domanda che sorge ovvia è: esiste una relazione causa-effetto certa tra la presenza di particelle e malattia? Una delle basi della scienza medica è la statistica e la statistica si avvicina sempre più alla verità con il crescere dei numeri. Benché il nostro gruppo raccolga da anni dati sempre coerenti e mai contraddittori, non possiamo affermare di avere una quantità sufficiente di casi (ad oggi, dicembre 2005, i casi di cancro esaminati sono circa 400) per avere il diritto d’affermare che la relazione esiste con certezza assoluta.
Tuttavia, una delle basi della scienza in assoluto per valutare la bontà di una teoria è la sua capacità di predire i fenomeni. È un dato di fatto che ogni volta che ci si è presentata la possibilità di conoscere dati rilevanti in nanopatologie, noi siamo stati capaci di predire con precisione l’istaurarsi di una malattia. In molte circostanze, poi, semplicemente esaminando con la nostra metodologia un campione patologico, siamo in grado di ricostruire le condizioni d’inquinamento in cui il soggetto è vissuto, fino ad indovinare quale sia la marca di sigarette che questi eventualmente fuma o ha fumato. Fra le tante, una prova per tutte sulla capacità della nuova branca della scienza di prevedere, è quella accaduta poco dopo il crollo delle Torri Gemelle a New York. Noi allora comunicammo che entro qualche anno un numero grandissimo di persone scampate al crollo, ma coinvolte per giorni o mesi nell’ambiente dove aleggiavano enormi quantità di polveri, si sarebbero ammalate di patologie simili a quelle di cui soffrono i reduci dalle guerre del Golfo e dei Balcani.
La cosa si è puntualmente avverata, coinvolgendo ora 400.000 soggetti, ma i numeri sono in aumento, ed ora il nostro gruppo è stato chiamato a lavorare su di un campione di pazienti newyorkesi per tentarne la detossificazione. Un altro punto da considerare è l’esperimento che eseguimmo qualche anno fa su di una popolazione di ratti, iniettando nei muscoli di una metà della loro schiena delle nanoparticelle metalliche ed impiantando nell’altra metà dischetti relativamente grandi dello stesso materiale. Entro sei mesi, tutti i ratti mostrarono segni evidentissimi di rabdomiosarcoma nella metà dove era stato immesso il particolato, mentre dove si erano impiantati i dischetti si notava solo una innocua fibrosi. Interessante è anche come le particelle ceramiche iniettate si fossero agglomerate, comportandosi quali particelle non più nanometriche, ma micrometriche, e non avessero dato origine ad una forma tumorale o, almeno, non ne avessero avuto il tempo.
Ancora da tenere presente è come indagini eseguite su tessuti di soggetti presumibilmente sani (giovani morti in incidenti stradali) non rivelarono presenze di nanoparticolato, e così accade quando si osserva il tessuto di pazienti in punti appena esterni a quelli nei quali la patologia è manifesta e nelle quali la presenza di micro- e nanoparticelle è evidente. Un altro fondamento della scienza nella valutazione di un modello è la sua capacità di spiegare i fenomeni, e non c’è dubbio che la teoria nanopatologica spiega con chiarezza l’origine di non poche affezioni criptogeniche. Si può allora discutere sui meccanismi biologici coinvolti nella connessione tra causa ed effetto, e questa è cosa che si sta facendo e che si dovrà indubbiamente approfondire, ma l’atteggiamento di chi vuol considerare le micro- e le nanoparticelle inorganiche innocue solo facendosi scudo della propria e, forse, generalizzata, mancata conoscenza è ingenuo quanto quello dello struzzo.

È ormai assodato che di fronte agli ordini di grandezza nei quali le particelle, soprattutto quelle nanometriche, si situano, le leggi della biologia classica non funzionano più, così come la fisica di Newton non è capace di spiegare il comportamento degli atomi o della luce e, anzi, questi comportamenti vedrebbe come assurdi. Occorre allora comprendere che, dal punto di vista biologico, queste entità di cui noi ci occupiamo non si comportano né come oggetti di dimensioni più grossolane né come ioni, cosa, quest’ultima, che riesce piuttosto ostica a chi sia educato alla tossicologia classica. È indispensabile comprendere che alla tossicità chimica di un determinato materiale si sovrappone un effetto deleterio di natura fisica, cioè il fatto stesso di essere corpo estraneo e di avere dimensioni tali da poter interferire con i tessuti a livello cellulare e subcellulare. I due effetti combinati sinergicamente danno luogo a reazioni biologiche mai indagate prima che non possono essere valutate con gli occhi della medicina novecentesca se non si vuole correre il rischio di fraintenderle.
A questo punto, a complemento di quanto appena esposto, un altro fatto su cui vale la pena insistere e che deve risultare chiaro è il fattore dimensionale. Come regola generale, più una particella è piccola, più è aggressiva, ma questa aggressività non si accresce in maniera analogica con il diminuire delle dimensioni. La cosa risulta evidente se si prendono in considerazione le PM2,5, vale a dire il particolato sospeso in atmosfera il cui diametro aerodinamico medio 3 è uguale o inferiore a 2,5 micron. A quanto risulta da studi non nostri, un incremento nella concentrazione atmosferica di questo materiale comporta un incremento parallelo nella mortalità cardiogena. Non altrettanto accade per le polveri PM10, dove il particolato considerato è quello il cui diametro aerodinamico è pari o inferiore a 10 micron. In questo secondo caso non pare esistere una correlazione diretta tra i due fenomeni. È certo che la nostra scienza è appena una neonata, ma è altrettanto certo che le conquiste alle quali è già pervenuta sono notevolissime. A questo punto, messo piede su di un continente sconosciuto, occorre solo essere armati di voglia di fare, di discernimento e, soprattutto, di tanta umiltà. Per valutare la nocività delle micro- e nanoparticelle bisogna considerare un certo numero di fattori.

Probabilmente il più importante è il loro essere corpi estranei, elementi, cioè, che l’organismo vede come nemici e che, per questo, combatte, cercando di distruggerli o, alla peggio, d’isolarli. In ambedue i casi, non dimenticando mai che quegli oggetti così piccoli non sono né biocompatibili né biodegradabili, il risultato è una malattia, non necessariamente evidente, o non necessariamente evidente subito, dal punto di vista clinico. Va da sé che la composizione chimica è di grande importanza nel determinare la tossicità della particella: che il mercurio sia più velenoso del ferro o il piombo del sodio è nozione comune. Occorre, poi, prestare attenzione alle eventuali trasformazioni cui il particolato metallico sequestrato in un tessuto può andare incontro. Non sono da escludere, infatti, fenomeni di corrosione con conseguente variazione (in peggio) della tossicità dell’elemento. Pure le dimensioni del particolato sono importanti: più queste sono grosse, meno sono insidiose. E importante è anche la velocità con cui le polveri sono inalate o ingerite: più l’introduzione è rapida e più alta è la concentrazione, maggiore è la pericolosità. Infine, senza entrare in ulteriori particolari, la forma è elemento da considerare. Particelle a forma di ago, come, ad esempio, quelle di amianto, sono penetranti assai più di quelle tondeggianti. Ora, un’altra domanda pressante è: possiamo liberarci da queste presenze una volta che si siano stabilite nel nostro corpo? Al momento, la risposta è no. Questo, però, non significa affatto che non esistano o possano esistere sistemi artificiali, come, ad esempio, fu qualche decennio fa l’emodialisi per i pazienti nefropatici. Malauguratamente, per studiare questi sistemi occorrono cervelli e denari.
A quanto pare, i cervelli ci sarebbero pure, ma i denari si preferisce spenderli altrimenti. Così, per ora ci dobbiamo limitare ad attuare in ogni modo forme di prevenzione, cercando per prima cosa di non creare particolato o, quanto meno, di non crearne troppo, e poi di difenderci da quello che già esiste. Ci sono forme di prevenzione che non costano nulla e che non si mettono in atto solo per ignoranza. Tanto per non fare che qualche esempio, basterebbe coprire con un foglio di plastica la verdura esposta dai negozi sulla strada per veder cadere drasticamente la quantità di particelle in quegli alimenti (un cavolo su cui siano cadute nanoparticelle è impossibile da lavare). Oppure basterebbe che il macellaio, una volta affilato il coltello sulla cote, non tagliasse la carne subito ma lo passasse su di un panno e lo lavasse. Oppure, ancora, basterebbe che i saldatori non portassero a casa gl’indumenti da lavoro e indossassero un copricapo e una mascherina (non quelle usate negli ospedali, quasi del tutto inefficaci per questo scopo). Non si trascuri, poi, la categoria dei dentisti, particolarmente a rischio per le continue inalazioni di materiali usati per la pulizia dentale. E che dire della verdura cresciuta ai margini delle autostrade o vicino agl’inceneritori? Insomma, con un poco di conoscenza ed un pizzico di cervello, se non altro per quel sensus communis del buon padre di famiglia che il diritto romano prescriveva, si potrebbe evitare una buona fetta di guai.

Dunque, attenzione anche all’uso che si fa, o che s’intende fare, delle nanoparticelle in medicina. L’impiego dei cosiddetti Quantum Dots 4 come traccianti per la diagnosi di certe forme tumorali o dei dendrimeri 5 come trasportatori di farmaco nelle terapie antitumorali deve necessariamente essere investigato anche dal punto di vista delle nanopatologie. Questo non significa opporsi alla ricerca, come spesso si viene troppo superficialmente accusati di fare, ma il suo esatto contrario: ciò che le conoscenze acquisite nel campo delle nanopatologie impongono è una ricerca allargata ad una branca della scienza che sta aprendo un vero e proprio universo nel campo della medicina. Ma da dove vengono queste particelle? A ben guardare, le fonti d’inquinamento particolato sembrano essere infinite. Alcune sono insite nella natura, altre, la maggior parte di esse, almeno per quanto riguarda la quantità di materiale scaricato, sono opera dell’uomo. Particelle delle dimensioni che c’interessano sono prodotte dalle eruzioni vulcaniche, dagl’incendi, dall’erosione delle rocce e dei terreni, dalle miniere a cielo aperto e degli edifici, dal sollevarsi della sabbia dei deserti (queste polveri che cadono spesso come pioggia rossa sono chiaramente visibili a tutti anche a migliaia di chilometri dall’origine) e perfino dal mare, che manda in atmosfera quantità rilevanti di sostanze che si agglomerano.

Dalle discariche di rifiuti si solleva particolato e nemmeno l’interno delle case è immune dal problema: i vecchi pavimenti di linoleum, infatti, possono liberare aghi nanometrici d’amianto. Ma i grandi responsabili del problema sono i procedimenti ad alta temperatura che oggi sono diventati comuni, soprattutto nell’industria. Dunque, i motori a scoppio, le fonderie, i cementifici, gl’inceneritori e i termovalorizzatori, le esplosioni in genere, e giù fino ad operazioni apparentemente più innocue come quelle di saldatura. Se le temperature sono elevate, molte sostanze volatilizzano per poi ricondensarsi sotto forma di quelle particelle che abbiamo descritto e che, stante la loro massa piccolissima, si comportano alla stregua di un gas, restando sospese in aria anche per mesi e subendo poi la sorte di cui si è detto. In presenza d’insediamenti industriali o d’impianti a caldo per il trattamento dei rifiuti, di norma si eseguono indagini sulla qualità dell’aria, e queste indagini sono tese ad individuare inquinanti, certo nocivi, quali, tra i molti altri, ossidi di carbonio e ossidi d’azoto, o composti come gli organoalogeni (per esempio, le diossine), che si formano quando la combustione non è completa.
Tra gl’inquinanti, ci sono anche i metalli pesanti, e questi vengono liberati nell’aria spesso in forma ionica, per poi raggrupparsi in particelle solide che non di rado, se la temperatura è sufficientemente alta, formano leghe del tutto casuali che non si ritrovano in alcun manuale di metallurgia. E sono proprio queste particelle ad essere responsabili delle nanopatologie. Da sottolineare come, dal nostro punto di vista, sia pericoloso liberarsi dei rifiuti, sempre in forma grossolana, incenerendoli e trasformandoli così in quantità enormi di nanoparticolato con le conseguenze di cui si è fatto cenno. Vale la pena aggiungere che gl’impianti più recenti funzionano a temperature maggiori rispetto a quelli del passato, in questo modo originando polveri più fini e, di conseguenza, più aggressive. Un caso tra le alcune centinaia su cui abbiamo avuto occasione di cimentarci fu quello di un soggetto affetto da mesotelioma peritoneale, una forma di cancro non comune. All’indagine ultrastrutturale nanopatologica, le biopsie mostravano la presenza di particolato contenente, tra gli altri metalli, uranio, la cui provenienza appariva un po’ sorprendente e certo difficile da stabilire, dato che il soggetto viveva in una pacifica città del Nord Italia, lontanissima da impianti nucleari.
Dopo non poche ricerche, venimmo a sapere che il paziente mangiava da almeno trent’anni radicchi di campo provenienti da una valletta posta tra due colline. Le ricerche che svolgemmo sul posto rivelarono la presenza sui vegetali di particolato analogo a quello rinvenuto nei reperti bioptici, e questo materiale proveniva da un’industria ceramica situata a qualche chilometro di distanza, industria che utilizzava quei metalli, tra i quali l’uranio, per smaltare i propri prodotti.

Una delle ricerche che abbiamo effettuato ci ha portato ad indagare su trombi catturati da filtri cavali. Ciò che abbiamo rilevato è come il sangue ospiti nanoparticolato, cosa questa, del resto, già nota da studi precedenti nostri ed altrui, e come questo particolato eserciti un’azione trombogenica, almeno in soggetti predisposti. Il fatto spiegherebbe il motivo, o uno dei motivi, per cui in occasioni non troppo infrequenti il radiologo non è in grado d’individuare il focolaio trombogeno in episodi di tromboembolia polmonare, in contrasto con la teoria classica di Virchow. Da indagare meglio c’è, poi, il ritrovamento di particolato nei pochissimi casi in cui abbiamo avuto l’opportunità di esaminare materiale trombotico prelevato da coronarie infartuate. Partendo da questo, può essere legittimo il sospetto, comunque ancora tutto da verificare, che particelle inorganiche s’insinuino nel microcircolo cardiaco diminuendone l’efficienza, fino ad essere responsabili di forme patologiche a carico del miocardio.
E ancora da investigare compiutamente c’è il ritrovamento di concentrazioni di particolato nei tratti interessati da aneurisma infiammatorio dell’aorta. Se questo materiale sia il responsabile, o uno dei responsabili, della patologia o semplicemente si accumuli nei tratti malati è tutto da provare. Ancora oggi, benché la scienza di punta abbia accertato almeno a grandi linee come e quanto sia nocivo il particolato inorganico e quanto sia importante comprendere la sua azione patogenica anche in rapporto alla sua granulometria, nessun paese ne ha regolamentata la produzione, lo scarico e il controllo, al di là dei rilevamenti di PM10 che non dicono gran che, e ben pochi sono i medici a conoscenza del problema. Così, noi continuiamo a trovare notevoli quantità di particelle micro- e nanometriche nel pane, nei biscotti, nella carne e perfino negli alimenti per l’infanzia, senza che nessuno intervenga, se non altro per iniziare una serie di controlli. E, colpevolmente ma, in un certo senso, comprensibilmente, l’industria si guarda bene dall’allestire spontaneamente una ricerca volta ad eliminare o, quanto meno, a ridurre le fonti d’inquinamento. Allora, se non sarà la classe medica insieme con la gente comune a chiedere che si faccia chiarezza, faremo ciò che spesso abbiamo fatto in passato: chiuderemo la stalla a buoi abbondantemente scappati.

1 “Micro” è il prefisso per ordini di grandezza tra il milionesimo e il centomillesimo di metro; “nano” per quelli tra il miliardesimo e il diecimilionesimo di metro.
2 I Filtri Cavali sono dispositivi di metallo che s’impiantano all’interno della vena cava per impedire la migrazione embolia di trombi che originino dagli arti inferiori o dal bacino.
3 Diametro Aerodinamico Medio è il diametro di una particella sferica che abbia densità di 1g/cm3 e velocità di sedimentazione uguale a quella della particella in questione. La velocità con cui le particelle sospese in atmosfera si depositano è direttamente proporzionale al loro diametro aerodinamico.
4 I Quantum Dots sono nanocristalli che s’illuminano quando sono stimolati da luce ultravioletta. La lunghezza d’onda della luce di cui s’illuminano dipende dalla dimensione del cristallo stesso.
5 I Dendrimeri sono molecole organo-metalliche costruite in laboratorio capaci di trasportare un’altra molecola in grado di riconoscere una cellula cancerosa, un agente terapeutico che uccida quelle cellule ed una molecola che riconosca il segnale della morte di una cellula.
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