Agli albori, la storia della terapia nasce da un senso di incompletezza che l'individuo tende a manifestare per riprendere il proprio cammino darwiniano di adeguamento e idoneità al modello di specie cui appartiene. In questo processo, tale incompletezza incombe ad ogni "inerzia egotica," cioè in ogni stagnazione nella quale un soggetto cade e si sofferma come in un sonno narcisistico, dal quale non voglia svegliarsi ma che addirittura proclami come nuovo stato di realtà: ecco il sorgere della malattia cronica.
L'esperienza crea il racconto, per cui nelle specie sociali questa può avere una finalità legata alla condivisione e allora la terapia diviene davvero il mezzo per estendere un "grooming" di specie. Emerge così una medicina per l'acuto ed una per le specie sociali e per le specie individualiste ove ogni mezzo terapeutico è essenzialmente deposto nella propria auto guarigione, e per queste ultime il margine terapeutico è più esiguo. Per dare del "malato" a qualcuno, uomo o animale che sia, occorre una conoscenza ed il terapeuta è colui che è in grado di recepire, accogliere e trasmutare la malattia. Per non trasformarsi in una sorta di esorcista, il terapeuta deve aspettare con saggezza che il malato raggiunga quell'umiltà che lo renda tale, quindi passibile di aiuto e somministrazione. Le cure sono infinite ma ogni malato necessita della propria, come espressione e funzione delle peculiarità individuali, così come ogni frutto di una stessa pianta risulta essere diverso.
Quindi un malato acuto temerà il dolore, ma è per il malato cronico che si richiede una terapia particolarmente individualizzata tanto più quanto la malattia, entrando a far parte di esso, si sarà deformata in base a quel preciso umore. Mentre la specie umana, attraverso il libero arbitrio, può scegliere la terapia con una conoscenza che la possa ricondurre al proprio sé, diverso è l'approccio del terapeuta nei confronti del paziente muto ma sopratutto senza peccato, cioè l'animale. Il libero arbitrio contraddistingue nell'uomo la possibilità di errare e redimersi: pena, un passaggio di espiazione connotato da un mezzo terapeutico che é il monito di qualcosa di cruento, cioè la medicina amara. E' da questa sintesi estrema che la terapia nasce con un peccato all'origine, cioè quello di indurre la guarigione attraverso la consapevolezza della colpa comminata all'uomo resosi cosciente e per questo libero. Questa tragica consapevolezza ha connotato il cammino della terapia, nel percorso storico e culturale dell'uomo, sempre basata sulla espiazione della malattia con un atto purificatorio a carattere esorcistico/sacrificale. La sacrificalità trova estrema rappresentazione nel figlio di Dio che "toglie i peccati del mondo" attraverso la propria espiazione per purificare l'uomo. Qui è esemplare come il male sia il mezzo emozionale e spettacolare per descrivere la colpa innata sulla quale infliggere la terapia. La "medicina amara" per questo, è stata scelta dall'uomo come unico mezzo per indurre nel malato ("malum agere", cioè colui che soffermandosi mette in discussione il comune percorso), una possibilità di "recupero del branco" attraverso la guarigione ("messo a riparo").
Da Hippocrate ad Hamer, la terapia incontra il genio illuminato di Hannemann, che per primo avverte la necessità di sovvertire questo ordine togliendo la tossicità e il connotato sacrificale alla terapia, sublimando la parte curativa dal veleno in cura. Ciò avviene attraverso un passaggio simil alchemico della cura stessa, diluendola e "succuotendola", cioè arricchendola di energia cosmica ed entrando in quella che la relatività esporrà come l' "inversione dell'energia rispetto alla materia". Questa trasmutazione della medicina amara in medicina dolce è il più importante passaggio filosofico e metodologico nell'abbattimento del paradigma espiatorio e nel recupero di quella purezza che deve avvenire senza sacrificio ma come uno stato di maggior consapevolezza attraverso un mezzo propiziatorio, possibilistico, inducendo nella guarigione il carattere di una scelta. Il mezzo velenifero, ovvero la terapia soppressiva, distoglie il malato dall'osservazione riportandolo unicamente ad una condizione di necessità e coercizione; in questo caso lo stato di abbandono di un presupposto patologico non viene mai accolto come possibilistico. Si fugge solamente da dove l'incendio divampa, così è distrutta la casa e il salto procura fratture irreparabili: la coscienza non cambia e la medicina amara rende malevolo anche colui che la destreggia, il terapeuta, che diviene il boia e la malattia resa inguaribile. Con queste premesse, la scelta terapeutica in ambito animale è assai delicata, considerando che il soggetto in questione è "muto", privo di "colpa", con una connaturata sanità/vitalità, una proverbiale forza e strenua reattività... Quale sarebbe dunque la medicina più giusta, più eticamente adeguata, filologicamente vicina al suo volere di creatura più prossima alla perfezione originaria, al cominciamento? Qualora il condizionamento non prefigga nessuna via di fuga, quale potrà essere la terapia adeguata per un animale che non chiede una terapia, non vuole e mal tollera veleni, non necessita di contaminazioni poiché il suo terreno è più puro; che non teme la morte e il dolore in quanto ha meno vita ma più vitalità?
Quale sarà il suo volere muto o il suo non volere? E ancora: esiste un obbligo morale nella terapia? Quale sia il suo percorso ontologico e la sua dignità, come possiamo pensare che necessiti della terapia soppressiva?
Sarebbe una mancanza di umiltà dell'uomo considerare tutto, animali compresi, a "sua immagine e somiglianza", omologando ancora una volta nel suo specchio antropocentrico ogni alterità biologica. Il dolore, massima espressione emotiva di reazione resa e tradotta da sintomo a malattia, costituisce il più grave danno nell'interpretazione semiotica della malattia: la morte non è vissuta come un dramma poichè l'animale è troppo intento a vivere per interessarsene e l'angoscia non è mai di tipo esistenziale, ma vissuta semmai in seno all'attività coercitiva dell'uomo sull'animale stesso. Come il dio cristiano si è fatto uomo per essere compreso, così l'uomo dovrebbe farsi animale e cercare in quegli ambiti emotivi quale possa essere il suo volere muto. Solo in quella dignità scoprirà la maggior forza e "l'incontaminatezza"!. Correggere la natura, significa invece giudicarla imperfetta.
di David Satanassi – Medico veterinario, omeopata, bioeticista.
www.danddveterinary
Pubblicato il 04/04/2013 su Remedia Blog